Il nostro consueto confronto con le tendenze food & beverage pubblicate come ogni anno dalla società di consulenza alimentare e della ristorazione Baum + Whiteman arriva in un momento dove, seppur il peggio della pandemia sembrerebbe ormai alle spalle, permangono ancora dubbi e incertezze: difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime, aumento dei prezzi generalizzato, food cost impazzito, assenza di manodopera qualificata, gestione del Green Pass e, più in generale, paura di nuove ondate.
In questo scenario dove instabilità e perenne slancio convivono ormai da due anni, ecco quali sembrano essere i principali food-trends secondo B+W:
- Automazione
- Nuovo approccio al business più consulenziale
- Cucina plant-based
- Esperimenti su forma e consistenze
- Storytelling multiculturale
- Dark kitchen
- Locali con offerta all day long
- La morte del fine dining
AUTOMAZIONE
Quello che possiamo dare per certo è che tutti, ognuno al proprio livello di esperienza, abbiamo notato in Italia un peggioramento generale nel servizio a tavola, in sala. Se in un primo momento, con un sentimento di forte empatia, abbiamo cercato di solidarizzare con ristoranti, gestori e staff, consapevoli delle difficoltà della situazione, ora la clientela – sia quella abituale che occasionale – non è forse più disposta a tollerare un servizio che non contempli al tempo stesso professionalità, efficienza, rapidità e gentilezza. Come preannunciato nel 2019 da Baum + Whiteman e da noi riportato nel relativo articolo, il primo trend per il 2022 sarà l’automazione.
B + W ci dice che durante lo scorso agosto circa 890.000 persone hanno lasciato il proprio lavoro nel settore dell’ospitalità: i ristoranti si stanno dunque tristemente e semplicemente abituando a lavorare con meno personale. Questo dato, unito al fatto che le persone in generale continuano a mantenere quel minimo di distanziamento sociale che il momento storico impone, comporta una graduale ma inarrestabile assenza di interazioni tra consumatore e staff.
Ed ecco che, nei paesi più tecnologicamente avanzati, dove viene a mancare il fattore umano arriva a supplire l’automazione.
Al White Castle di Chicago è nato ad esempio Flippy, il robot che da solo griglia hamburger e cuoce le patatine fritte. Il personale – dicono – verrà reimpiegato in operazioni di custode care.
Da Sushiro a Tokio, robot tra i più innovativi arrivano a preparare il numero impressionante di circa 1500 piatti all’ora in 130 varianti, coordinati da un sistema gestionale che arriva a prevedere anche il traffico e gli ordini dei successivi 15 minuti.
Lo stesso vale a Boston per bowls e insalate a New York dove da Nice Day una serie di wok automatici mescolano ingredienti, cucinano e condiscono i piatti.
CAMBIO DI APPROCCIO AL BUSINESS
Il Forum della Ristorazione, organizzato dall’agenzia RistoratoreTop e dall’Osservatorio Ristorazione ha recentemente confermato un nuovo approccio al business che tiene conto di una contaminazione a livello gastronomico tra tradizione italiana e sapori di paesi lontani e di un adeguamento al potere di acquisto degli italiani contraddistinto da una forbice sempre più ampia.
Un altro aspetto che va a intaccare il tradizionale approccio al business del comparto ristorazione, un cambiamento di cui siamo testimoni in prima persona occupandoci di comunicazione food&wine da ormai 7 anni, è il desiderio dei ristoratori di sentirsi affiancati da un serio progetto di consulenza esterno; per fare strategia, per presentarsi online, per gestire meglio le ordinazioni, per puntare al delivery, per aprire un nuovo locale da zero o un punto in franchising, per raccogliere, analizzare e monitorare i dati.
Calando dunque il trend dell’automazione nel panorama italiano, anziché immaginarci robot camerieri o l’uso quasi esclusivo di tablet al tavolo, dobbiamo piuttosto pensare a quei sistemi gestionali automatizzati che migliorano le attività interne di ristoratore e personale, supportano la logistica, gestiscono database e fanno guadagnare tempo prezioso. Un esempio su tutti: Deliverart, il software italiano pensato per rendere più semplice ai ristoratori la gestione del servizio di food delivery controllando tutta la customer journey, da quando arriva l'ordine fino alla consegna con i propri fattorini. Ideata da Eleonora Bove e Bryan Natavio ad oggi è un prezioso strumento per l’aggregazione degli ordini, la gestione della fiscalità e l’e-commerce, l’integrazione con le casse digitali e molto altro.
CUCINA PLANT – BASED
Si parte da ragioni economiche e di approvvigionamento prima che da quelle ambientali o etiche: i costi delle proteine animali alle stelle e una carenza generale di polli hanno fatto sì che in Canada, California e NY, dopo gli esperimenti sulla carne sintetica già descritti nel 2019, partissero delle implementazioni circa l’arrivo sul mercato di pollo vegetale.
In Italia la strada verso una quanto più possibile completa alimentazione vegetariana è lunga: tanto per cominciare, da un confronto con l’offerta di altri paesi europei, notiamo subito quanto sia difficile, per un vegetariano trovare sempre e comunque in carta, un’alternativa vegetale che non sia appunto mera alternativa ma piuttosto un piatto completo, finito, elaborato e pensato fin dall’inizio nella sua piena identità green. Fa sorridere che questo accada in un paese come l’Italia dove la creatività e l’estro in cucina non mancano; si tratta piuttosto di un cambiamento culturale che lentamente sta scardinando alcune convenzioni e tradizioni ormai consolidate nel tempo.
Nel frattempo il comparto Ricerca & Sviluppo del colosso Nestlè, dopo il tonno vegano, sta testando sul mercato europeo dei gamberetti-non-gamberetti realizzati a partire da alghe, piselli e radici di konjac.
LE METAMORFOSI
E qui il buon vecchio Ovidio non c’entra nulla. Facciamo invece riferimento ad una nuova tendenza gastronomica che tende a trasformare la materia prima mantenendo intatte le proprietà organolettiche di gusto e olfatto di un determinato alimento ma trasfigurandone la forma e la consistenza. Prima solo appannaggio dell’alta cucina o delle sperimentazioni fusion, ora sono sempre più numerose le aziende (piccole, medie e grandi) che giocano con pesti, condimenti, sferificazioni, effetti crispy o piuttosto spoonable.
In questo modo si possono raggiungere molteplici obiettivi: ampliamento di occasioni e modalità di utilizzo, consumo destagionalizzato per alcuni prodotti, diversificazione aziendale grazie all’introduzione di nuove categorie merceologiche, abbattimento dei costi. Insomma, un’idea semplice ma il più delle volte, se si vuole raggiungere l’eccellenza, non così facile da realizzare: nel nostro paese infatti la tendenza non è quella di fare il classico mappazzone frullando tutto alla meno peggio ma in alcuni casi ci sono anni e anni di studi necessari a raggiungere picchi di creatività come ad esempio nel caso del Perlage al tartufo di Tartuflanghe, prodotto ormai storico da utilizzare come fosse un caviale, in qualunque stagione.
Ma parliamo anche di piatti veri e propri. È evidentemente l’anno del Sud Corea che dopo Squid Game nel 2022 pare spopolerà a livello di trend gastronomico con i suoi Hot Dog in stick, abbondantemente spennellati di salse e burro, poi ricoperti di farine o risi ai vari gusti e infine fritti e decorati fino a che non è abbastanza, cioè mai. Un versione salata e molto più no-limits della fortunata operazione di personalizzazione dei Magnum Algida.
Sempre secondo B+W si aggiungono le uova strapazzate alla Coreana… che altro non sono che un vero e proprio concentrato di burro e uova tra due fette di un toast straripante che può ospitare di tutto (dal pollo al mango), per finire ovviamente in uno sfavillante e colante tripudio di salse.
Il perché del (l’eventuale) successo di queste pietanze potrebbe essere ricondotto non solo ad un fattore di gola ma anche alla loro identità incerta, a metà tra uno street food e un complemento per una sostanziosa (e forse anche poco digeribile) colazione salata.
Sembra inoltre che non potremo esimerci da tutta una serie di mush-up di cui viene da chiedersi se si senta davvero il bisogno: in America grazie agli investimenti di marketing di Kraft e il suo accordo con Van Leeuwen spopoleranno i maccheroni con gelato al formaggio e pancetta. 12 dollari al vasetto e passa la paura.
Diverso forse il caso di un noto Caviar Bar di Chicago dove il caviale viene servito (anche) a corollario di una gustosa coppa di gelato. In occasione di Identità Golose 2015 mi è capitato di provare personalmente un dessert davvero sorprendente: il Gelato Latte e Caviale dello chef Andrea Ribaldone. In quel caso, un mix davvero ben riuscito grazie all’uso calibrato di panna e miele, che contrasta in maniera bilanciata con la sapidità misurata del Caviale Calvisius, eccellenza tutta italiana rigorosamente malossol.
Nonostante oramai il gelato salato non sia più una novità, soprattutto nelle cucine e nelle gelaterie più sperimentali, in Italia assistiamo comunque ad un approccio più soft e ponderato, anche se non mancano le proposte estemporanee più ardite come il gelato alla barbazza che ho avuto occasione di assaggiare qualche anno fa ad una storica sagra di paese ad Amelia, in provincia di Terni: croccanti chips di guancia di maiale guarnivano la mia coppa di gelato al fiordilatte, ultima scena di un pranzo non poco impegnativo, che di sicuro è stato tutto fuorché plant-based!
In ogni caso, contaminazioni dolce-salato o inaspettate trasformazioni alimentari in Italia hanno solitamente un esito molto più interessante, grazie ad una tradizione gastronomica consolidata e ad un marketing che rimane spesso ancorato ai concetti di studio, innovazione, gusto e ragionevolezza.
Un esempio su tutti quello di gliAironi, azienda presente da oltre cinque generazioni nelle grange vercellesi che oltre ad una superlativa produzione di riso Carnaroli da qualche anno ha messo sul mercato Crunchy: un riso croccante non soffiato, ricoperto a bassa temperatura di spezie e ingredienti tutti naturali, un prodotto ideale per decorazioni di vellutate, salse, creme, dessert, spume, risotti, cucina d’avanguardia.
LO STORYTELLING TRA CUCINA E CULTURA
Parliamo più semplicemente di racconto, di quegli intrecci narrativi che possono scaturire dalle contaminazioni tra diverse cucine e culture. Si tratta di un campo in piena evoluzione i cui cambiamenti sono resi ancor più complessi dal fatto che entrano in gioco valori identitari e semiotici. È interessante notare come ormai la parola “etnico” risulti quasi bandita dai naming dei ristoranti, dai menu e dai comunicati stampa: un termine giudicato oggi troppo colonialista e troppo poco multiculturale.
Un esempio su tutti è dato dal curry, il quale può assumere connotazioni anche assai diverse a seconda della nazione di provenienza (provate a dire a un indiano che il curry americano o jamaicano sono la stessa cosa che mangia lui). È dunque corretto parlare di curry americano, curry giapponese o curry italiano o si tratta di un atto di illecita appropriazione gastronomico-verbale? B+W sottolinea – secondo noi con cognizione di causa – che se in un locale di San Francisco non sono presenti cuochi indiani pronti a cucinare il curry universalmente riconosciuto come curry, è probabilmente molto più corretto utilizzare in menu la denominazione di “curry americano”.
Su Facebook e Instagram in particolare, queste sono incongruenze che il cliente non perdona e i social media manager che devono gestire commenti e controversie lo sanno non bene, ma benissimo.
DARK KITCHEN
B+W ne parla dal 2017 e oggi sono una realtà che va consolidandosi sempre di più, anche se tra imprenditori e consulenti comincia ad insinuarsi un doppio rischio. In primo luogo quello della saturazione: non sarà che prima o poi la presenza/assenza di queste cucine fantasma porterà ad un graduale svuotamento dei tavoli presso i locali? E ancora, Euromonitor sostiene che l’industria delle dark kitchen nel 2030 varrà circa 1 trilione di dollari e non è un dato poi così strano se si pensa che con la pandemia sono numerosissimi gli spazi con cucine inutilizzate (o utilizzate di meno) che vengono per l’appunto così riconvertite: non solo ristoranti dunque ma si parla anche di hotel, aeroporti, uffici, università.
ALL DAY LONG
Mentre fino a pochi anni fa assistevamo ad una sorta di pregiudizio nel decidere di cenare nello stesso posto in cui la mattina era stato possibile consumare la colazione, oggi con la pandemia e lo smart working, cade anche questo tabù. Anzi, è stato dimostrato come chi assume ruoli professionali di prestigio ma ancora lavora prevalentemente in smart-working, riversi sempre più budget in ulteriori pasti occasionali, dalla colazione sotto casa prima di iniziare a lavorare, al lunch-break nel quartiere limitrofo dove prendersi la giusta pausa con un collega. Ristoranti che prima servivano solo il pranzo ora si trovano spesso ad essersi riconvertiti in una formula all day long che in alcuni casi serve anche a gestire meglio la dispensa, il food cost di alcune materie prime, il personale. Senza contare che alcuni ristoranti storicamente serali da poco hanno magari ampliato il servizio delivery o anche take away, proprio nell’orario del pranzo, per incettare nuovi segmenti. Ma visto che noi, oltre che comunicatori siamo anche foodies più che veterani, ci piace andare al di là del mero dato di apertura e notare come questo comporti una graduale commistione di generi alimentari all’interno dello stesso pasto. Ecco dunque che il cappuccino delle 8.00 viene accompagnato da una morbida focaccia, che la seconda colazione diventa quasi un brunch, arricchendosi di succhi e centrifughe, che il pranzo magari viene servito con le bacchette, che l’aperitivo in enoteca in inverno può anche essere sostituito da thè e pasticcini in una bakery di stampo americano, che l’after dinner abbia dal canto suo una carta di distillati e liquori sempre più curata, ampia e variegata.
LA MORTE ANNUNCIATA DELL’ALTA RISTORAZIONE
Con in ogni momento di crisi che si rispetti, la storia è sempre la stessa. Critici, giornalisti e influencer dichiarano con solennità, sui propri canali, la morte irreversibile dell’alta cucina. A circa ormai 2 anni dall’inizio della pandemia, consapevoli che la decadenza del fine dining, soprattutto per quanto riguarda la gestione de costi e del personale, sia iniziata molto prima, possiamo confermare che la crisi abbia investito in maniera più violenta e preponderante i piccoli-medi ristoranti. In ogni caso, finito il boom passeggero di kit e delivery box, eccellenti chiusure a livello soprattutto europeo (pensiamo ai ristoranti di Albert Adrià in Spagna) non possono ovviamente essere ignorate in questa analisi.
Ci teniamo però a dire che questa non è, come molti inspiegabilmente auspicano, la fine tout court dell’alta cucina. È più che probabile che i ristoranti di fascia molto alta, grazie alla resistenza del loro target di riferimento, continueranno a esistere accanto ad una ristorazione di media fascia oppure, come noi auspichiamo, che possano nascere nuovi sistemi e progetti di ristorazione innovativi ma alla portata di molti: un esempio su tutti il nuovissimo “La Devozione” che finalmente ha aperto le sue porte nel tempio della gastronomia americana, il Chelsea Market di Manhattan, grazie all’intraprendente, tenace e inarrestabile visione imprenditoriale di Giuseppe Di Martino, presidente del pastificio G. Di Martino - che dal 1912 produce Pasta di Gragnano. All’interno, spiega Di Martino all’Ansa, sarà sempre presente un pasta genius che spiegherà l'utilizzo della pasta a seconda del formato, intensità, versatilità, condimento e abbinamento con l’obiettivo di spiegare agli americani e ai consumatori in generale fuori dell'Italia perché esistono tanti tipi di formati, perché esiste una differenza tra la pasta di Gragnano ed altri tipi di pasta.
Coco Chanel diceva che “il lusso è un’esigenza che comincia dove finisce la necessità”: non sappiamo se questo è vero, ma sappiamo anche che oggi, mentre attendiamo e lavoriamo con ansia perché l’esperienza della pandemia trovi la sua conclusione il prima possibile, siamo un po’ tutti, secondo le nostre possibilità, alla ricerca del nostro piccolo grande momento di serenità. A tavola, in viaggio o in un museo poco importa: a volte basta anche solo la consapevolezza, o il lusso, di poterlo fare in piena libertà.
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